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LA FAVOLA DEI PESCECANI E DEI PESCI ROSSI

Grande subbuglio nel reef. Da un po’ di tempo a questa parte, i tonni e i merluzzi, che erano il pasto preferito dei pescecani, non si fanno più vedere in giro. Rincantucciati in qualche fessure inespugnabile delle rocce, si guardano bene dall’uscirne per fare da pietanza ai pescecani, che ovviamente non possono essere contenti della piega che vanno prendendo le cose. Urge perciò convocare il Gran Consiglio dei pescecani per discutere la grave questione ed eventualmente trovarvi il rimedio. Presiede la riunione, anche in virtù della sua mole e delle sue abitudini alimentari, lo Squalo Balena che subito apre i lavori.
Il primo a prendere la parola è il più noto killer degli oceani, lo Squalo Tigre che secondo le cronache tenne all’affollata assemblea pressappoco questo discorso: “ Esimi colleghi, come ben sapete, siete stati convocati per discutere a fondo la grave questione all’ordine del giorno: la sparizione dal reef dei tonni e dei merluzzi che ci rifornivano di pranzo e cena. Non conosciamo nei dettagli la causa di una simile mancanza di collaborazione da parte di questi signori, ma si può supporre che sia in atto qualche congiura ai nostri danni per privarci del nostro sacrosanto diritto di pasteggiare con carne fresca tutte le volte che ne sentiamo il desiderio. La mia proposta perciò è di mandare in giro squadre di Pesci Martello, armati di bastone e manette, con l’incarico di scovare dai loro nascondigli tutti i tonni e i merluzzi che riescono a trovare e farli finire seduta stante sui nostri piatti”. Gli scrosci di applausi che accompagnarono la fine di questo discorso volevano significare che la proposta aveva toccato il cuore di tutta l’assemblea. Ma non quello dello Squalo Bianco, che infatti chiese la parola che gli fu subito concessa dal gentile presidente.
“Ho ascoltato con attenzione e rispetto la proposta del collega che ha appena parlato, ma mi dispiace di dover dissentire. Mandare in giro squadre di picchiatori non sarebbe una politica abile e si potrebbe ritorcere a nostro danno. Infatti, una tale esibizione di forza e appetito non farebbe altro che allarmare tutti i pesci del reef, che temerebbero di finire nei nostri piatti anche se  è proprio questa la nostra intenzione perché nei pesci piccoli c’è poca sostanza e in quelli armati di guscio non c’è nessuna voglia di collaborare e appena vedono avvicinare uno della nostra specie tirano giù la saracinesca e buona notte al secchio. A mio parere, modesto finché si vuole, una proposta migliore in tale senso, e che per di più non agiterebbe troppo le acque, sarebbe di non andare in giro mettendo in bella mostra tutti i denti di cui madre natura ci ha provvisti, che non è una vista rassicurante per nessuno. Propongo perciò di dipingervi sopra fiori con i colori più vivaci, cosa che non ne limita la capacità di presa e triturazione ma, senza provocare lo spavento generale, farebbero accorrere verso di noi tonni e merluzzi che ora se ne stanno alla larga poco rassicurati dal gentile spettacolo offerto dalla nostra bocca spalancata” .
Anche questa proposta floreale fu accolta con scrosci di applausi non di prammatica.
Dopo varie altre proposte dello stesso tenore, che tuttavia non smossero l’assemblea dal punto morto in cui era caduta, si levò in piedi il rappresentante dei Pesci Rossi che assisteva al dibattito in veste di osservatore e collaboratore esterno. Questi infatti non pescano le loro prede nel reef e nemmeno nei tempestosi fondali oceanici, ma se ne stanno tranquilli sulla terra ferma, vicino alle pubbliche dispense dove sono custoditi i pesci in salamoia che formano il loro pasto abituale, senza contare quelli che dostribuiscono generosamnteai loro amici pescecani, soprattutto quando nessuno sta a guardare. Come  amico e dispensiere dei pescecani aveva quindi le carte in regola per intervenire. Perciò chiese a sua volta la parola che gli fu subito accordata.
“Signor presidente e spettabili rappresentanti di tutte le razze di pescecani, le proposte che ho appena  ascoltato, soprattutto quella di carattereeergico di affidare ai pesci martello il compito di stanare tonni dai nascondigli in cui si sono nascosti, muscolare , mi trovano concorde e forse un giorno, quando non avremo nulla da temere dalla cattiva che un simile comporta,mento co procurererbbe arriveremo ad attuarle, ma reputo, che oggi come oggi, i tempi non siano ancora maturi per imporre con la forza il nostro volere a tutto il reef , ed eventualmente con la somministrazione di massicce dosi di olio di ricino per rendere più convincenti i bastoni e perciò vanno accantonate. Lo stratagemma di camuffare i denti con le immagini di fiori, merita pure il nostro apprezzamento, perché non ci procura molte simpatie andando in giro a bocca spalancata come a dire “vieni qua che ti voglio divorare” e quindi possiamo adottarla se l’occasione lo richiede. Ma la politica migliore, a nostro giudizio, voglio dire a giudizi della congrega dei pesci rossi, quella che possiamo chiamare di svolta, deve prendere tutt’altra direzione. Per non alienarci troppe simpatie e tranquillizzare gli abitanti del reef, siano sardine con poca carne addosso e trascurate da voi, che i grassi tonni, a giudizio di chi vi sta parlando la via migliore sarebbe quella di convincere l’opinione pubblica, con ben orchestrate campagne di propaganda, che i veri benefattori del reef siete voi mentre tonni e merluzzi, che si rifiutano di farsi mangiare, sono soltanto dei reazionari nemici del progresso. Soprattutto le sardine, che sono il cibo preferito di questi ultimi e accorrono in banchi folti per raccogliere le briciole dei vostri pasti, dovrebbero sentirsi rincuorati e persino fare il tifo per voi. Con le masse delle sardine dalla nostra parte, non dovrebbe essere difficile orientare tutto l’opinione pubblica facendo credere che se il vostro cibo preferito sono tonni e merluzzi non siamo mossi dall’appetito ma dalla solidarietà con la massa delle sardine che non fanno parte della vostra dieta in quanto poco consistenti. E se pagate bene i giornalisti, vedrete i miracoli che si possono fare ripetendo questa storiella“.
L’ultimo discorso fu approvato con molti applausi e qualche fischio. Questi ultimi provenienti dal settore occupato dai piccoli squali che, non avendo accesso diretto ai tonni e alla dispensa comune, non erano nelle condizioni di poter disdegnare le sardine .

CARLO CATTANEO: la città, la storia, la buona e la cattiva amministrazione

Lo scritto di Cattaneo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane è per noi del massimo interesse sotto due punti di vista. Secondo il grande milanese, a partire dal più remoto passato, per le genti del nostro paese la storia narra vicende di città, che sono vicende di  organizzazione della vita economica e politica, nonché culturale, a partire dalle piazze e dai vicoli disegnati con maggiore o minor rispetto dello spirito geometrico entro le mura delle nostre città. In questo caso, l’organizzazione dell’intera  vita delle comunità si rendeva visibile come organizzazione urbana. Il cittadino, prima che l’abitante di una città, era il portatore di doveri e  diritti e della volontà e capacità tanto di rispettare i primi che di difendere i secondi contro le forze feudali arroccate nei castelli montani o nelle abbazie, i nemici naturali dei diritti. Egli traeva linfa intellettuale ed etica dalla vita cittadina nella quale si formava, cui del resto ne restituiva in abbondanza perché le istituzioni, in larga misura emanazioni della volontà comune e  con ogni loro decisioni controllate dal basso, non potevano facilmente operare nell’ombra, all’insaputa dell’universale  e contro i suoi interessi. Col nome di municipio, con la campagna che la circondava e da cui traeva il necessario per vivere, formava un’unità inscindibile,  controllando tutti  gli elementi di vita necessari per formare  quasi uno stato in miniatura. Entro questi limiti, la vita degli uomini poteva svolgersi liberamente e in tutte le direzioni, perché non era difficile vedere il fabbricante farsi commerciante e banchiere, come anche politico, storico e combattente per la sua piccola patria.

Le epoche successive, degli stati territoriali, delle società della produzione industriale e degli scambi commerciali,  hanno decretato la fine dei sistemi economici e politici  cittadini chiusi da mura e fossati. Gli stati moderni costituiscono organizzazioni di vita più vaste e complesse, dove però il cittadino, preso dal    meccanismo della vita pratica, da rapporti competitivi tra privati a loro volta fonti di problemi di ogni genere , raramente trova occasione di sollevare la testa e informarsi sullo stato di salute della vita comune, salvo per quelle notizie che hanno più diretta importanza per la sua vita e filtrano attraverso organi di comunicazione occupati più a manipolare le informazioni a vantaggio dei loro padroni che a informare obiettivamente. Soprattutto quando le notizie vengono scodellate tutte le sere nei salotti di casa dove il cittadino stanco siede affamato più di quanto bolle in pentola che di verità. Il fenomeno del cittadino manipolato e tipico di un’epoca evoluta in cui esistono tecniche per ogni bisogna, comprese quella rivolta a plasmare le anime e a farle vibrare in accordo con i massimi interessi che controllano i mezzi di informazione stessi.

Parallelamente alla transizione dallo stato cittadino a quello  esteso territorialmente,la città,da struttura politica, è diventata organo di amministrazione dello stato che drena risorse dal territorio per erogare servizi, mentre il cittadino, smesse le vesti  eroiche di un tempo, si trova ridotto al più modesto ruolo di contribuente. Il che sarebbe poco male se i suoi soldi, anziché venir dirottati nelle capaci tasche dei padroni a cui rispondono i politici e,in misura minore, nelle tasche di questi, venissero usati per gli scopi in ragione dei quali sono stati prelevati.  La storia  chiede quindi ai cittadini di cambiare pelle, di trasformarsi da difensore di mura e fossati alabarda in pugno in controllore della finanza pubblica, maltrattata dagli amministratori di solito tanto più sorridenti sotto le elezioni quanto più decisi ad approfittare della carica una volta eletti. Compito nuovo ma non meno rispettabile e impegnativo di quello di una volta quello del controllore della regolarità amministrativa, di come sono  spese le risorse pubbliche, perché informarsi di quanto succede alla cosa pubblica richiede impegno e impone rispetto, anche se ora in fin dei conti sembra voler difendere i suoi interessi e non il prestigio della città.  E questo senza perdere nulla della sua antica dignità di cittadino militante. Infatti, non è molta la strada da percorrere per giungere dal controllo amministrativo a quella coscienza politica che oggi, come in altre epoche, può essere soltanto il prodotto di una cultura capace di comprendere a abbracciare tutte le diverse e contrastanti volontà. Nel mondo moderno, la coscienza politica può nascere soltanto dalle cose e da una cultura che ne comprenda l’intima natura, i poteri e le resistenze, come le direzioni alle quali sono volte le volontà degli uomini,  il frutto di una cultura organizzatrice sorta dalle cose stesse e perciò smentibile soltanto dalle cose.

Da qui occorre ripartire per non smarrirsi nelle tendenze caotiche di un mondo che va per al sua rombante strada senza chiedere prima il parere  a coloro che sono destinati a venir travolti.

Nelle pagine seguenti si parlerà anche di soldi, e forse a taluno sembrerà con lo spirito ragionieristico di chi si preoccupa di far quadrare i conti. Ma si ingannano, perché si tratta di un segno dei tempi, di tempi in cui il cittadino non si contenta più delle parole rassicuranti delle quali sono prodighi i demagoghi, col loro seguito di barattieri e falsari, ma si sente finalmente in grado di gettare luce sull’unica realtà ancora circondata da reverente mistero:quello circa la natura del legame tra le parole e i fatti. Questa è la sfida alla quale i nostri tempi sono chiamati.

Si potranno anche trovare significative suggestioni nelle immagini di città nelle quali la loro vocazione politica antica risulta evidente nelle cose stesse.  Organizzate attorno ai rispettivi fora esse suggeriscono l’esistenza di un ordine che era il risultato di un interesse e un pensiero comuni, compatti, non la divagazione dietro immagini di felicità personali fatalmente deluse da più potenti pensieri volti a perseguire interessi più grandi dei nostri.

Rivolgersi allo spirito delle città per trarne insegnamenti ancora validi ai nostri giorni potrà venir accusato di campanilismo ma non di ristrettezza mentale se gli insegnamenti tratti sono quelli giusti. Ecco perché vogliamo riunire le nostre forze nel nome di un passato che potrà diventare ricco di insegnamenti per il futuro.

Parla dell’argomento che conosci meglio perché lo vivi, della tua città e del significato universale della sua storia;scambiatevi le idee sugli insegnamenti che trasmette. Si formerà così una rete di cittadini che invece di accontentarsi delle parole confezionate da altri per illuderlo e deluderlo si impegnano nell’arduo compito, che riveste anche un loro interesse primario, di  scoprire tra i segni ambigui dei tempi  una verità non disprezzabile. (Ottobre 2012).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHE COS’E’ LA PARTITOCRAZIA(Ernesto Rossi sulla partitocrazia)

Appena usciti dalla dittatura e dalla guerra mondiale, ristabilita la così detta democrazia parlamentare, dalle pagine del Mondo Ernesto Rossi(1897-1967) si prova a mettere a nudo dinanzi agli occhi degli italiani la natura dei partiti di massa appena ricostituiti e la loro logica immanente. Spirito realista, immune da intenti  denigratori nei confronti dell’dea democratica,  apparsa così seducente nei cupi anni della dittatura, il suo scopo era prima la diagnosi del male e, successivamente, di sentire i rimedi a processi degenerativi che sembravano svuotare di contenuti un’idea per la quale molte persone si erano battute ed erano morte.

“Il suffragio universale e la rappresentanza proporzionale – che hanno costretto i partiti ad estendere la propaganda tra tutti i ceti sociali -, il progresso della tecnica di propaganda – con la quale si riesce a convincere gli elettori a votare  per certe liste e per certi candidati con gli stessi costosi sistemi con i quali si persuade la gente a comprare i dentifrici -, la sempre maggiori difficoltà a trovare persone che lavorino gratuitamente per realizzare un programma politico, hanno fatto enormemente   aumentare, durante l’ultimo cinquantennio, le spese dei partiti politici.

Per far funzionare la <macchina> di un partito di massa oggi occorre gettare sotto la sua caldaia quattrini a palate:alcuni miliardi vanno ogni ano per l’organizzazione e le attività ordinarie( sedi della direzione centrale, delle federazioni provinciali, delle sezioni comunali e dei quartieri; stipendi a molte centinaia d funzionari; rimborsi delle spese di viaggio e di soggiorno per convegni internazionali e riunioni della direzione, del comitato centrale e di tutti gli altri comitati; manifestazioni pubbliche, film,posta, automobili dei dirigenti; manifesti murali;assistenza legale,ecc.),mentre altri miliardi vengono spesi saltuariamente per le campagne elettorali, per coprire i disavanzi dei giornali politici, per i congressi, per i contributi straordinari per le associazioni parapartitiche,ecc.”(Il <combustibile> dei partiti,in: Ernesto Rossi:Contro l’industria dei partiti, 20 ottobre 1963, in: Chiare lettere, 20012, p. 83-4).

Rossi vedeva l’inizio dell’epoca classica della partitocrazia, quella che va dalla fine del secondo conflitto mondiale, il 1945, e la caduta del muro di Berlino(1989), l’epoca della guerra fredda e dei blocchi ideologici contrapposti, caratterizzata dalla competizione per attrarre consensi condotta senza esclusione di colpi guerra e al limite della guerra civile strisciante. Tuttavia, le sue considerazione si rivelano valide in ogni circostanza data l’importanza della posta politica in gioco in ogni turno elettorali: la direzione degli affari pubblici e la gestione dei relativi bilanci in cui sono maneggiate somme enormi di denaro, la possibilità di favorire con leggi, decreti, la rivelazione di notizie riservate ad amici e finanziatori.

Da qui la relativa facilità con la quale si può rispondere alla domanda:da dove vengono tutti i quattrini spesi dai partiti?

“Il bisogno di quattrini, il bisogno di sempre più quattrini da buttare a palate sotto la caldaia della macchina, è uno dei principali fattori che determinano l’atteggiamento pratico dei partiti davanti ai maggiori problemi che hanno comunque un riflesso sulla vita economica del paese. Gli amministratori dei partiti non possono trovare le decine e le centinaia di milioni, necessari alla macchina, nel portafogli dei <tifosi> che delirano di entusiasmo ai discorsi dei propagandisti nei comizi politici; li trovano nelle casse delle organizzazioni padronali di categoria, nei conti correnti in banca dei grandi industriali e  dei grandi proprietari terrieri e nelle percentuali sugli affari, più o meno sporchi, resi possibili dagli interventi statali”(Le serve padrone, Il Mondo,24 giugno 1950, in ibidem, p. 9).

Qual è l’origine di tanti slanci di solidarietà dei danarosi padroni nei confronti dei bisognosi partiti di massa? Sono essi stati colpiti da improvvisi attacchi di generosità per le sorti della massa o per l’ideale? Niente di tutto questo.

“I grandi finanziatori dei partiti non danno i quattrini per motivi altruistici;li danno per avere la difesa dei loro interessi, e per ottenere favori e privilegi che compensino le somme sborsate, considerando nel costo di questi investimenti anche un’altissima quota per i rischi relativi a tutte le operazioni del genere…Ogni partito al governo dispone di cariche, incarichi, enti da gestire o da controllare con i propri uomini, e quindi è logico e naturale che costoro,  dovendo al partito da cui provengono la nomina, dirigano e amministrino con i criteri loro imposti o suggeriti”(ibidem,pp.9-10).

In altre parole, accade quello che è accaduto da che mondo e mondo:i pifferai suonano la musica comandata da chi sborsa i dobloni o i talleri, e buon per loro se viene trovata di gradimento dal vasto pubblico perché, nel sistema proporzionale, più voti significa più potere e quindi più posizioni di comando da occupare per compensare i finanziatori ben nascosti nell’ombra.   In quanto alla musica suonata, è quella che si è soliti ascoltare nelle pubbliche piazze, dove si accampano gli imbonitori dei rimedi miracolosi, i venditori della mercanzia più variopinta.

E questo non senza una logica necessità perché nelle condizioni sociali del mondo moderno non si va nelle pubbliche piazze per scambiare e ragionare ma  per farsi intrattenere dall’illusionista di turno, la cui lingua spericolata e senza i ritegni di chi dovrà poi rispondere di se stesso,  è abile nell’unire quanto la logica delle cose  tiene distinto e separa quanto invece deve restare unito. Infatti, esperti come sono nel disegnare seducenti scenari con le parole, sanno pure il fatto loro quando si tratta di tenerle separate dai fatti che invece dovrebbero garantirne l’autenticità, per accoppiarli con altri creati ad arte, o immaginari come le parole, ma con le quali sembrano andare d’amore e d’accordo, secondo l’arte sublime del conduttore di popoli, del demagogo che nelle democrazie trova le condizioni migliori per far fortuna.

Pazienza se tutto questo si riducesse alla fine soltanto in una perdita erariale, nel passaggio del denaro dalle tasche del contribuente alla cassa pubblica e da questa nelle tasche degli amministratori e finanziatori dei partiti, un travaso che ubbidisce alla legge di natura secondo la quale il denaro è attratto da altro denaro. Perché per favorire i finanziatori, i partiti debbono tener lontano dai posti strategici che decidono e controllano la spesa degli enti pubblici, le persone capaci ed oneste, i così detti servitori dello stato, difficili da convincere ad abbandonare gli obiettivi  criteri di gestione. Essi difficilmente si piegherebbero alle direttive dei maneggioni di partito  a vantaggio degli arrivisti più spregiudicati, sempre pronti a ubbidire a coloro ai quali debbono il posto. Conoscitori delle leggi quanto basta per eluderle senza subirne le conseguenze, sanno come muoversi nella giungla dei bilanci degli enti amministrati per creare fondi a favore dei partiti di riferimento.

“Nessuno potrà mai stabilire quanti miliardi della ricchezza nazionale sono così distrutti per ogni centinaio di milioni che entra nelle tasche degli affaristi politicanti quale compenso per ogni milione che i medesimi signori versano nelle casse dei partiti.

…Il male forse più grave è che molti degli espedienti usati dagli uomini politici per finanziare i partiti non possono essere messi in pratica senza la connivenza dei funzionai preposti ai più importanti servizi pubblici. E, una volta che abbiano aiutato gli uomini politici a tali pratiche camorristiche, i più alti papaveri della burocrazia romana diventano intoccabili. Anche se non hanno voglia di lavorare, anche se sono completamente inadatti ai loro compiti, anche se rubano a man salva, non possono più esser rimossi. Le loro malefatte sono tutte perdonate per timore che vengano altrimenti scoperti dei pericolosi altarini”(Una malattia segreta,Il Mondo 30 agosto 1952, in ibidem,p.42).

Così Ernesto Rossi. Ma se dai primi anni ’50, quando i partiti ancora strutturati, organizzati nella logica delle grandi divisioni di interessi  del mondo sociale e delle idee che li rappresentavano,  seguivano nel procacciarsi denaro  un metodo dotato di una sua perversa giustificazione, veniamo ai nostri giorni, i giorni dei partiti personali senza metodo e senza organizzazione,dobbiamo ammettere che le cose non sono affatto cambiate e anzi sono peggiorate e non soltanto sul piano della logica politica. Ora le cricche che tengono in pugno i partiti si risparmiamo persino di sbandierare gli ideali di una volta, ma si limitano ad accusarsi reciprocamente di tutti i misfatti mentre nell’ombra continuano a spartirsi le spoglie del paese. Con quali risultati il benevolo lettore scoprire nelle pagine del nostro Notiziario sulla partitocrazia.

Novembre 2012

DEMOCRAZIA E CONTROLLI(I sogni finiscono al risveglio)

  Per prendere i pesci, non basta armarsi di amo, dall’aspetto troppo minaccioso per attirare qualcuno degli abitanti del vasto mare. Occorre invece coprire la sua punta di esca, meglio se commestibile e fresca, consiglio inutile se rivolto agli uomini dei partiti perché lo mettono in pratica da sé quando vogliono catturare i pesci. Da qui l’aria di imbonitori da fiera che hanno i nostri politici quando appaiono dinanzi al popolo sovrano, la capacità di dire esattamente quello che il vasto pubblico desidera ascoltare, di far sognare con abili combinazioni di parole(dai,facci sognare! è il pensiero trasmesso dai volti assonnati in attesa dinanzi agli schermi televisivi o ai palchi all’aperto dove si usa spendere parte del tempo durante le serate estive), con la prospettiva di benefici che discenderebbero sul cittadino elettore una volta instaurato il regno della giustizia e del progresso sociale, naturalmente logica conseguenza della conquista del potere ad opera del nostro partito e della condanna all’ignominia e all’astinenza dell’opposizione di quello avversario, ignobile fautore dell’ingiustizia e del regresso. Così, a furia di assicurazione sul nuovo ordine prossimo venturo, quello che avrebbe risolto in maniera definitiva tutti i problemi del passato e persino impedito il ripresentarsi di quelli nuovi nel futuro, ci ritroviamo senza la minima ombra di progresso, a meno che non si voglia chiamar tale un debito pubblico che non smette di crescere e il peso fiscale più alto del mondo che si aggiunge al debito senza alleviarlo e  gravante sulle spalle del cittadino elettore  che non può ricoverare i suoi guadagni in qualche paradiso fiscale, frequentati viceversa da quanti sono qualificati come  benefattori del popolo dai giornali di loro proprietà o comproprietà, poco importa.
  Questi inconvenienti  non fanno che aumentare gli sforzi dei politici per trovare dei sostituti delle vecchie idee di progresso, nonché nuovi nemici da identificare come i responsabili del regresso sotto gli occhi di tutti, ai quali attribuire pure, a beneficio di chi non regredisce,  le colpe del degrado morale fatalmente in agguato, vale a dire il partito diverso dal nostro. Insomma, siamo sempre nel regno delle favole raccontate ai bambini ansiosi di crederci, della buone fatine e degli orchi malvagi, del mondo migliore da conquistare con energiche marce in avanti, nonostante tanta gente si ostini a volersene restare laicamente seduti per pensare ai fatti propri e chiacchierare di questo e di quello.
  C’è da chiedersi da dove viene questa secolare propensione della nostra gente a dare ascolto alle favole più disarmanti e perciò più popolari, a bere come oro colato le parole degli imbonitori di piazza, i dispensatori di aggettivi trasformati in sostantivi ma senza altra sostanza che non sia quella del loro suono. Perché non si sviluppa e diventa popolare il rispetto dei fatti, la tendenza a saggiare sulla loro ruvida scorza le parole prima di metterle in circolazione per provare la regolarità del loro conio? Perché si continua a sognare al suono delle parole, ad accendersi di indignazione alla retorica dei comizi, invece di guardare i risultati delle promesse, cercare di  scoprire  se il loro metabolismo è regolare, se non ingurgitano troppo cibo in relazione alla magrezza dei risultati.
  Si dirà che in un paese dove sono fioriti il sonetto e il melodramma non è facile sottovalutare la retorica. Inoltre, le occupazioni straniere vi hanno avuto come conseguenza anche la crescita dell’importanza delle parole come sostitute di fatti, vietati da polizie, eserciti di occupazione e preti. Ma qui non è questione di facilità, bensì di sopravvivenza, perché le parole liberate dall’obbligo di corrispondere ai fatti diventano disponibili a tutte le manovre a nostro danno. Infatti, le parole in libertà, fuori del controllo empirico, sono destinate prima o poi a mettere fuori controllo le teste, che è quanto vogliono i gestori del potere per continuare a gestire come a loro meglio piace il bilancio.
  Perciò, soltanto una prolungata assuefazione all’inganno può far credere ai più che la democrazia sia una questione di parole, eventualmente accompagnate con bandiere al vento, sfilate nelle pubbliche strade e assembramenti nelle piazze principali di paesi e città. Se il suono carezzevole delle parole promette all’affaticato e al depresso giorni migliori e persino euforici, lo stesso fanno i narcotici, propinati a giovani e adulti, lavoratori e disoccupati. Visto dai disagi dell’oggi, il domani è sempre un giorno migliore e i propagandisti di partito appartengono alla classe delle mosche astute, capaci di far credere che il carro si muove per merito loro e non dei buoi legati alle stanghe. Tuttavia, per l’uomo di partito, se non finisce in carcere, il domani sarà senz’altro migliore di oggi perché quello sarà il tempo in cui potrà raccogliere il frutto dalla trama tessuta oggi. Questo vuol dire che la democrazia è il regno dove il falso ha libera circolazione? Non lo crediamo, o almeno non è più libero che sotto altri regimi. Vogliamo invece dire che soltanto nella democrazia il falso può venire scoperto è denunciato senza corrore il pericolo dell’arresto in flagranza di reato. Essa ha soprattutto bisogno di controlli dal basso, da chi ne paga le spese, non di propagandisti dei partiti il cui scopo è sempre il potere e la sua gestione, soprattutto il suo simbolo visibile, il denaro. La democrazia ha quindi le sue vittime e i suoi beneficiari, è oggi le prime stanno per diventare maggioranza. Questo apre a nuove possibilità, crea un bisogno di informazione e partecipazione sconosciuta nel passato, quando la promessa di partecipare alle spartizioni bastava per crearsi negli elettori una provvisoria platea di complici interessati. Senza un efficace sistema di controllo fatto di informazioni e azione, il potere diventa inevitabilmente abuso e la democrazia degenera nel governo dei partiti a proprio vantaggio, in partitocrazia.
  Il controllo degli abusi di potere è scritto sulla bandiera del liberalismo sin dal suo sorgere, quando la società civile doveva confrontarsi con una tradizione di abusi materializzata nel potere autocratico del monarca (G.De Ruggiero:Storia del liberalismo europeo,Bari).La rivoluzione costituzionale inglese aveva come programma di sottrarre al re la facoltà di imporre tasse  e spendere il denaro pubblico senza rispondere a nessuno. Ma perché il contribuente arrivasse a controllare la tassazione e la spesa pubblica, la testa di un re è dovuta cadere per sancire un principio nuovo: l’uomo comune non è più disposto a restare suddito. Una rivoluzione si è compiuta,  certo con i colori meno rutilanti delle tante rivoluzioni agitate nel nostro paese nel recente passato e invece di discorsi accesi si alimentava di freddi calcoli,  di prese di posizione sostenute dalla volontà di proteggere la borsa dall’agente delle tasse e dal birro che gli veniva dietro. Informazioni controllabili e  freddi calcoli piuttosto che le frasi accese ci sembrano però  l’unica soluzione dei mali di un paese dove la malafede si copre spesso di unzione e la volontà di prevaricazione in concessione a una sciatteria coltivata con arte per dividere le colpe e distogliere così lo sguardo dai veri responsabili.

 

Maggio 2013